Le tessere della Fame

tratto da “www.la-piazza.it”

Si mangiava poco durante la seconda guerra mondiale, l’alimentazione degli italiani venne regolata dalle tessere annonarie, da tutti chiamate le tessere della fame. Colori diversi per le differenti fasce d’età, verdi per i bambini fino a otto anni, azzurre dai nove ai diciott’anni, per gli adulti grigie. Segnarono la vita di grandi e piccini per un lungo periodo, tutti gli anni della tragedia bellica ed anche dopo, per altri quattro anni fino al 1949. Il cibo quotidiano veniva distribuito da quei rettangoli di carta che gli uffici municipali dell’annona provvedevano a fornire ogni due mesi, uno per ogni membro della famiglia. Perciò le nostre mamme, numi tutelari dell’appetito familiare, ne divennero gelose vestali, nelle loro mani si affidava il destino del desinare giornaliero, una sola volta al giorno. Guai a smarrire quelle carte, pena il digiuno. Né si poteva sperare, tranne in casi eccezionali, di ottenere il “supplemento” che potesse far sperare nel cibo quotidiano. A loro, alle mamme, il compito di custodire quelle carte: che esse, sentinelle attente, andavano a depositare sotto il materasso, posto ritenuto più protetto di una cassaforte. E poi, lì depositate, si sperava di conservarle ben stese e stirate, pronte all’uso prima di andare in bottega per il prelievo quotidiano. C’erano poche botteghe in quegli anni, Palma la “stefnatijdd” all’angolo del palazzo di “don Sabbine”, “Catarine la maccarnare” in piazza, Rosina “d’ R’sarie” e “Jann la colette” alla via di Turi, “Nofr d’ cozz” e la “N’colucc” sulla via di Gioia, Mariangela la “colasepp” all’imbocco della via per Acquaviva, “Giuannine la stefnatijdd” sotto l’arco dell’orologio, “Jannine di pecr” alla via di Casamassima.. E quando si era al loro cospetto, autentici depositari della sopravvivenza collettiva, intenti a disciplinare code di clienti in paziente attesa del proprio turno, iniziavano le operazioni di controllo della titolarità delle carte annonarie: sulle quali erano riportate con scrittura a inchiostro nero indelebile le generalità di ogni membro della famiglia.
Prima operazione, “u p’ttaiare” stendeva la carta annonaria sul bancone di vendita, la stirava, e con lunghe forbici tagliava le strisce in cima alle quali imprimeva il timbro dell’esercente, destinate alla consegna periodica presso gli uffici annonari municipali. Magri quantitativi per più magre razioni di cibo: duecento grammi di pane al giorno, pane nero fatto di poco grano e di legumi sfarinati, o pane giallo di granturco sfarinato, pane che si induriva, immangiabile, ma che pur bisognava mangiare. Fu allora che la gente cominciò a cantare sottovoce il ritornello “duce duce come na fatt r’dusce, la d’ senza pane e la nott senza lusce”, il primo sintomo di rivolta popolare contro il regime fascista.
Niente carta annonaria per il caffè, chi ne desiderava una tazza doveva ricorrere al surrogato, un caffè d’orzo fatto in casa, con il poco zucchero che il governo “passava”, appena qualche zolletta di zucchero nero sintetico che neppure lontanamente potesse far ricordare lo zucchero vero degli anni di pace. Era la conseguenza del regime di autarchia imposto dallo Stato fascista. Razionamento, manco a dirlo, per la pasta, nera che a cuocerla diventava come colla, e per la carne, non il vitello o il manzo, ma carni di pecora e di capra, dure come legno, o di cento grammi di “mazz i grass” giusto per insaporire il ragù una volta ogni tanto. Latte e olio furono i primi generi commestibili entrati nel giro del contrabbando che divenne da subito una piaga sociale, facendo riemergere l’antico detto popolare “uerr i t’mbest, ci s’ spoggh e ci s’ vest”, e dando la stura agli illeciti arricchimenti dei furbi sulla pelle della povera gente. La quale fu costretta a vendersi di tutto, ori di famiglia, qualche podere, panni di corredo, persino mobili di arredamento, armadi, comò, cristalliere, sedie per racimolare qualche soldo da spendere al mercato nero. Con gioia pervicace dei contrabbandieri che accumularono ricchezze, comprandosi masserie, appartamenti, e gonfiandosi oltre misura i portafogli.
Le carte annonarie si rivelarono immediatamente una sorta di carta dei sogni. Dovevano dare accesso al razionamento di molti altri generi di prima necessità, patate, uova, formaggi, burro, grassi animali, marmellata, legumi secchi, anche sapone. Però le scansie dei bottegai ne erano sempre sprovvisti. Ma in tempi di guerra e di tempesta si scatena anche l’inventiva popolare. All’olio e al burro che mancavano, si rimediava con un pezzo di sugna o di lardo di porco, o se ne faceva a meno. Le marmellate, soprattutto nei piccoli paesi, scatenarono la solerzia e l’inventiva di mamme nonne sorelle, ogni genere di frutta diventava marmellata, albicocche, ciliegie, amarene, cotogne, mele, che divennero il companatico più utilizzato soprattutto per quietare i morsi della fame dei bambini. Anche le erbe selvatiche, ogni tipo di erbe commestibili, prime fra tutte “i lapest”, vennero lessate per sfamare grandi e piccini: scondite, disgustose, ma sempre cibo era.
Impossibile, poi, sperare in un abito nuovo, quelli vecchi, giacche, pantaloni, camicie, venivano rivoltate, riadattate, passate da padre a figlio, da fratello a fratello. Di suole di cuoio per le scarpe neppure a parlarne, per la risuolatura si faceva ricorso ai copertoni di biciclette. La carta annonaria dava anche diritto ad un pezzo di sapone al mese, sempre insufficiente nelle botteghe, fortunati solo i pochi clienti che avevano la ventura di trovarsi in negozio nel giorno della distribuzione. E fu così che le donne impararono a fare il sapone in casa a base “d’ l’ssì” e soda caustica. Se ne riempivano grandi caldaie messe sulla brace a bollire a fuoco lento, e qualcuno doveva rimestare con un bastone fino a quando la malta cominciava a rapprendersi. E quando si raffreddava, veniva tagliata a pezzi. Persino le biciclette vennero appese al muro, impossibile trovare copertoni e camera d’aria. Ci fu chi riuscì a rivestire i cerchioni di vecchi sifoni attorcigliati per poterle utilizzare. Le carte annonarie non davano diritto ad una qualche razione di alcolici. Anche in questo caso si fece ricorso all’antico uso dell’alambicco per denaturare il vino e ricavarne qualche litro “d’ spird”, buono per fare il rosolio.
Tutti i bottegai si comportarono da amici del popolo, furono solidali e aiutarono tutti, a tutti assicurando un pezzo di pane, perché tutti avevano diritto a mangiare. Senza distinzione di censo e di mestiere, braccianti e famiglie che avevano figli in guerra, artieri, disoccupati, soprattutto quando in casa c’erano molte bocche di bambini da sfamare. Privilegiate furono quelle mamme o vedove che avevano avuto il figlio o il marito caduto in guerra, vestite a lutto stretto, in testa un cencio nero, per mano un figlioletto scalzo, coi calzoncini rattoppati. E col moccio al naso. E con la “pettl” al sedere. La guerra, è vero, aveva risparmiato le nostre contrade da bombardamenti e distruzioni, ma riversò i suoi effetti in mille altri modi: soprattutto lutti e fame. E quando a guerra finita si pensò ad un ritorno alla normalità, il razionamento e le carte annonarie restarono, fino al 1949, a perpetuare l’immane tragedia degli italiani. Poi arrivarono gli anni del boom economico. Ma quella è un’altra storia.

Domenico Notarangelo

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